Due immagini di questi ultimi giorni riassumono il gorgo nel quale è finita la nostra civiltà. La prima è quella delle centinaia di migliaia di palestinesi in cammino che tenta di ritornare a casa. Un popolo intero in piedi, una popolazione che non si è macchiata di alcun delitto se non quello di esistere, ridotta alle più misere condizioni minime di sopravvivenza, in cammino. Non singoli individui, ma un popolo intero, un’umanità che è stata privata di tutto che intende tornare sulle macerie delle proprie case per affermare il diritto alla vita.
Una marcia di popolo che non si può non definire di “dimensioni bibliche”, e come deve apparire ai tanti ebrei dentro e fuori d’Israele, se non un inevitabile, ineludibile richiamo ad un’altra mitica marcia di un altro popolo in cammino, il loro. I figli di quel popolo che ha poi conosciuto esodi, deportazioni, migrazioni ed esilio non può non vedere un destino simile al proprio in questa lunga interminabile marcia di migliaia di persone spogliate di ogni decenza umana, anche se forse non della dignità, in un infelice contrappasso della storia.
Quegli ebrei per generazioni avevano abitato l’Europa, e poi da poco più di un secolo anche il Nord America, contribuendovi come pochi altri allo sviluppo civile e culturale (quanti sono stati gli ebrei che primeggiano nella nostra storia?), perché pur nella diversità, e spesso nelle avversità, vi si erano mischiati, legati, capaci di appartenere non a una ma a più nazioni e sentendosi sempre parte della polis comune. Quell’Europa che, dopo secolari conflitti, era stata capace di raggiungere il riconoscimento della comune natura umana nella diversità dei singoli – e dei singoli popoli – definendone il principio fino a farne un perno della comune base giuridica inizialmente proclamata dalla Rivoluzione francese e poi attuata dal codice napoleonico: che nessuna diversità per nascita può legittimare una diversa attribuzione di prerogative e dunque una diversità di trattamento.
Certo, ci vollero molte lotte e mille battaglie – delle donne, delle minoranze – ma fu quello più di ogni altro il marchio che venne a definire il sentire comune dell’Europa moderna, la sua civiltà. Un valore, che però ad alcuni oggi pare non più irrinunciabile.

La seconda immagine è quella degli immigrati incatenati, fatta girare ufficialmente della Casa Bianca nei giorni scorsi, un’immagine che appare come l’affermazione plastica dell’opposto di quei principi di uguaglianza richiamati sopra. Essa sembra infatti dire che vi sono persone che non meritano trattamento umano, che possono essere trattate come animali, come schiavi, e lo possono in nome della legge. Non vi è più alcun richiamo alla tradizione europea illuministica – la costituzione statunitense, pur precedente la rivoluzione francese, aveva la medesima ispirazione – ma, anzi, ci riporta ad un passato in cui erano le élite (cui si accedeva per sangue) a decidere del destino dei singoli. Ma anche questo è un segno di dove sta andando la nostra “civiltà”.

Non si tratta di contrapporre l’Europa agli Stati Uniti – in tutto e per tutto oggi accomunati in quello che viene chiamato “Occidente” – ma, anzi, di evidenziare come un’unica sindrome se ne stia ormai impossessandosene: quella dell’assedio, dell’invasione, della contaminazione. Gli Stati Uniti, nati da un progetto colonizzatore e genocidario – dei nativi – e razzista – schiavista, segregazionista – non hanno mai adottato, fino in fondo, l’idea universalista dell’uguaglianza. Il suprematismo bianco non si è mai spento. E il capitalismo, di cui sono divenuti i massimi alfieri, non ha fatto che riproporre su scala economica e sociale le divisioni originarie. La sua struttura di classe si è così conformata ammettendo sì, i “diversi” (dai bianchi anglo-sassoni), purché totalmente assimilati (in ultima analisi, bianchi o “bianchizzati”). In Europa, il processo non è stato troppo diverso. Da quando si sono affermati gli Stati-Nazione l’identità “nazionale” originaria ha prevalso, ovunque. Si pensi all’Italia, dove le minoranze di lingua tedesca, albanese, greca o dalmata si sono dovute piegare, divenendo “italiane” (e lo stesso vale oggi per gli immigrati di ogni dove). O alla Francia, dove la “francesità” deve prevalere su ogni altro criterio di cittadinanza. In questo processo, però, la scala sociale non ha fatto che riflettere queste discriminanti (in ogni Paese europeo, l’incrocio tra i dati sulle disuguaglianze di reddito e di “etnia” sono drammatici).
Oggi, gli ideali universalistici – fattisi giurisdizione – dell’illuminismo paiono tornati rinunciabili, per la difesa della presunta identità nazionale (così si dice) che vuole in realtà difendere il privilegio di alcuni, contro “gli altri”. Il muro contro i migranti, la rinuncia alla difesa e al sostegno dei ceti più deboli appaiono giustificati dalla protezione contro l’assedio, l’invasione e la contaminazione dei tanti “stranieri” miserabili che bussano alle nostre porte, di quelli che stanno bene contro i tanti che stanno meno bene. Noi italiani, che dai tempi di Roma non avevamo più vissuto sotto un unico governo, attraversati da decine di eserciti, governati da innumerevoli regni e potenze straniere, oggi reclamiamo la difesa di un’italianità che non è neppure linguistica, che non è mai esistita. E oggi difendiamo gli inclusi dagli esclusi.
Certo, c’è chi dice che l’Europa potrebbe oggi ergersi a difesa di quell’universalismo che era stato alla base della sua rinascita. L’Europa che partorì il meglio della cultura moderna – con i suoi ebrei, cristiani di ogni latitudine, finanche gli arabi che tennero viva la cultura greca – pare soccombere sotto l’incedere delle sue élite, divenute improvvisamente intolleranti, per difendersi dal mondo che le assedia, per proteggere una ricchezza che non vogliono condividere, perché generata con il sangue delle masse subalterne, di cui non vedono l’ora di liberarsi.
C’è un’ultima immagine che, anch’essa, riassume il baratro in cui la nostra civiltà europea, ed è un’immagine candida: quella della piccola Hind Rajab, una bambina palestinese di 6 anni. Il 29 gennaio 2024 un carro armato israeliano colpì un’auto nella quale Hind Rajab viaggiava con alcuni parenti. I parenti morirono subito, ma Hind sopravvisse al primo attacco e telefonò alla Mezzaluna rossa chiedendo disperatamente aiuto. I soccorritori che furono mandati ad aiutarla furono uccisi dall’esercito israeliano. Hind rimase per due ore nell’abitacolo dell’auto fin quando uno dei 335 colpi sparati non la colpì uccidendola. Come afferma Franco Berardi, «l’assassinio di Hind Rajab da parte dei nazisti dell’Israeli Defense Force rimarrà forse come uno dei simboli del precipizio di disumanità che sta trascinandoci verso l’orrore assoluto».

Che sia genocidio quello perpetrato dagli Israeliani sui palestinesi o sia “semplicemente” uno sterminio di massa, poco importa. È una discussione che appare finanche leziosa. Nessuno protestò quando si definì genocidio quello attuato a Srebrenica dalle forze serbe sui musulmani bosniaci, come nessuno protestò quando si ebbe contezza dello sterminio compiuto dagli uomini di Pol Pot in Cambogia. I bambini uccisi con un colpo alla testa a Gaza non sono “incidenti collaterali” e non si può giustificarli con il fatto che Israele intendeva uccidere i terroristi di Hamas. I crimini compiuti a Gaza gridano vendetta. Che l’Europa non sia intervenuta per impedirli o sanzionarli appare una vergogna. Non è questa la civiltà in cui ci riconosciamo.