Vive la liberté!

Al voto! Al voto!


Lunedì mattina, visi angosciati: riusciremo a superare il 50% dei votanti? Ora sono tutti con l’acqua alla gola. Prodi che si chiede «dove andremo a finire?». Lo chieda al suo partito… Certo faremo meglio di dieci anni fa, ma non è detto che andrà a votare più gente che alle Europee (il 59%). Povero Pd, persino in Emilia-Romagna dovrà soffrire! E la cosa fa sinceramente dispiacere.

Ci sono punti sui quali concordo e apprezzo quanto fatto negli ultimi dieci anni dal Pd al governo della Regione. Ce ne sono però tanti (Igor Taruffi mi perdoni) sui quali non concordo affatto e rigetto, che hanno soprattutto a che fare con il Pd “nazionale”: la sua postura bellicista, la voce bassa tenuta sul massacro a Gaza, l’appoggio a Draghi, le politiche del lavoro, il non aver mai rinnegato di aver perseguito la “flessibilità” più che le tutele del lavoro, l’impostazione culturale che vede al primo posto l’impresa, perché tutto quello che fa l’impresa è bene perché va anche a vantaggio dei lavoratori (sarà che Marx si rivolta nella tomba, ma a loro non interessa, ma vallo a dire ai lavoratori delle imprese e cooperative in appalto), con tutto il portato di “modernismo” e “amore per la tecnologia”. Poi, certo, c’è il Pd locale, con il suo mix efficientista-popolare, ceti “produttivi” e umarell e sdaure: L’Emilia-Romagna e la motor valley, l’Emilia-Romagna e “il food”, l’Emilia-Romagna e la riviera, la mitica piccola e media impresa (ma la classe operaia, un tempo mitica, è stata dimenticata).

Ora, anche se questi non sono più gli eredi del PCI, che è bello morto e sepolto, hanno però ancora il culto di Berlinguer – icona nostalgica per riempire il vuoto d’oggi – pur avendo ben poco di quell’antica idea di «rappresentare le classi popolari». Oggi il Pd è il partito delle classi medie e quella parte di classi popolari garantite. Le altre no, peccato per loro (che così, abbandonate, guardano a destra, sperando che questa “le protegga” o non vanno a votare). Il guardare ai ceti “produttivi” li ha fatti perdere di vista le condizioni di più di un quarto della popolazione, e anche di quella metà della popolazione che ha un reddito medio annuo sotto i 15.000 euro lordi, in questa regione (!), che in parte li vota perché, com’è invalso negli ultimi anni, gli altri sono peggio.

Dopo le recenti alluvioni e la presa di coscienza (abbastanza) generalizzata che «è colpa del cambiamento climatico», si poteva supporre che la logica sviluppista – «quel che conta è la crescita, tutto il resto non conta» – potesse essere messa in discussione in almeno due modi: stop da subito a tutto ciò che contribuisce ad aumentare le emissioni di gas serra, dobbiamo contribuire a ridurle; basta consumo di suolo in aree ad alta pericolosità idro-geologica e da frana e cura del dissesto idro-geologico.

Invece, guardate cosa De Pascale indica come 7 priorità (c’è un suo post del 10 novembre): 1) gestione diretta degli aiuti per l’alluvione (vabbè); 2) infrastrutture (sì! alta velocità potenziamento di strade e autostrade, viabilità montana e collonare, aeroporti – insomma, costruire, cementificare); 3) rilancio viticoltura (vabbè); 4) piano strategico per il turismo (…); 5) sanità: potenziare l’AUSL Romagna (e il resto? E la privatizzazione dei servizi? E le liste d’attesa?); 6) università (maggiore integrazione: ma chi l’ha detto che questo porta a migliori servizi?); 7) connessione digitale (legata all’hub per il supercalcolo di Bologna, vabbé).

C’è qualcosa in queste priorità che fa pensare che il Pd ha cambiato rotta sui temi dell’ambiente e del territorio? No, zero.

Cosa dicono i suoi alleati? Parole, spesso vuote, slogan, ma comunque “giuste”, a cominciare dai Verdi. AVS eccelle nelle belle parole. Non un rilievo sulle gestioni passate, però (solo un appunto alla legge urbanistica, che «va rivista»). La cementificazione e l’impermeabilizzazione dei suoli, il consumo di suolo vergine, il dissesto idrogeologico sono questioni dirimenti? Non parrebbe, quanto meno non lo sono al punto da essere fondanti dell’alleanza con il Pd. AVS fa coalizione con il Pd per avere seggi e magari anche uno o due assessorati (maledetta legge elettorale), per poi, dicono, portare avanti le politiche ambientaliste e di sinistra che servono. Davvero? I Verdi facevano parte della coalizione uscente, così come quelli di E-R Coraggiosa… È forse contato qualcosa? A questa tornata, anche Coalizione Civica bolognese ha dato pieno sostegno alla campagna AVS, aderendo in toto. Ma non erano stati, loro, tra i più vociferi contro il Passante bolognese (si veda la foto sotto, era il 2016)? Si può anche cambiare idea, motivandola. Il progetto passante non è cambiato di un rigo, sono già stati tagliati alberi e fatti lavori, ma niente. A un alleato si chiede lealtà, e leali ora sono. Ma fa rabbia.

Sui 5 Stelle non si può dire nulla, perché non si sono fatti sentire. Sarebbe bello sapere che linea hanno in regione. Come sempre, loro pendono dalle labbra del loro leader e si adeguano. Il quale ha detto che l’alleanza deve andare avanti.

A sinistra, tre liste “radicali” hanno fatto cartello comune – pur disprezzandosi – con poche chance di andare oltre la testimonianza. Il loro massimalismo li tiene lontani da tutti, tanto dai “cugini” di AVS che dai ceti popolari cui vorrebbero parlare. Dicono che è meglio votare per loro che non votare, ma è una magra consolazione.

Così, ora sono tutti con il fiato sospeso, nella paura che la destra faccia il colpaccio. Ma il Pd e i suoi alleati un milione di voti dei ceti medi urbani li prenderanno, e le cose potranno andare avanti tranquille, con tanto di pacche sulle spalle, convinti di aver «capito il Paese» e i suoi bisogni. «Una ricetta per le prossime elezioni nazionali», diranno, con qualche parola di cordoglio per “l’alto astensionismo”.

Il fatto è che, come nota l’amico @Marino Calcinari, a guardare i programmi e la rivendicazione del “buon governo”, non c’è molta differenza tra De Pascale qui e Fedriga in Friuli Venezia Giulia o Zaia in Veneto. Un sano programma liberista e moderato per territori con l’etica del lavoro, un efficientismo “innato” e tanta “voglia di lavorare”. Nulla da eccepire, anche se poi era stato proprio da quelle parti che il buon Andrea Zanzotto, poeta del paesaggio, aveva per primo lamentato lo scempio della natura in nome del progresso. È vero che gli emiliani e i romagnoli sono «gente che ha tanta voglia di lavorare» e le cose le riesce a fare, se decide di farle. Ma che questa enfasi del fare non ci faccia dimenticare ciò che stiamo “disfando”, con il rischio di non poter tornare indietro.

Così, con lo spauracchio della destra – che, guarda caso, manda i suoi nostalgici squadristi a mobilitare gli antifascisti a Bologna, giusto per ricompattare un’alleanza che ha come unico collante l’antifascismo – la coalizione si prepara a vincere, anche se con il fiato corto. Ha ragione a temere l’astensionismo, perché segnala un disagio profondo, un distacco, una sfiducia. Cui non ha saputo rispondere.

Andiamo dunque a votare, che è qualcosa per la quale i nostri genitori lottarono, come ci viene ricordato. Mai avrebbero lasciato passare un’elezione senza votare, “non importa chi, purché si voti”. Astenersi non serve, è vero (del resto, se ne sono fatti un baffo quando Bonaccini divenne presidente dieci anni fa). E attendiamo il responso delle urne. In tanti, da oggi, dovranno chiedersi cosa fare per salvare la democrazia che hanno svuotato di senso, dato che ci credono ormai in così pochi.


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