L’ultima, ennesima emergenza climatica in Emilia-Romagna ci ha sommerso tutti, letteralmente. Le immagini e le notizie da Valencia, poi, ci hanno lasciato sgomenti. Politici e amministratori sono stati travolti dagli eventi, indaffarati a limitare i danni, a correre per riparare, a lanciare appelli e allerte rosse. E non poteva essere altrimenti. Dopo il momento della solidarietà, del soccorso, dell’azione, per ripulire, riparare, rimettersi in sesto, ora ci sentiamo tutti coinvolti, e tutti ora vogliamo capire e cerchiamo risposte: è mai possibile che, se piove, ci debba essere un’alluvione?
Sì, è possibile, perché ormai non lo nega più nessuno: gli eventi recenti sono dovuti al cambiamento climatico. Così dicendo, tuttavia, non vorremmo che finisse per essere una sorta di rinuncia, perché «non possiamo farci niente». Perché noi sappiamo che, invece, possiamo fare molto. Perché è il nostro distorto rapporto con l’ambiente all’origine di quel cambiamento. Da un lato, con un’emissione di gas “serra” che aumenta esponenzialmente, contribuendo al riscaldamento globale che, a sua volta, è all’origine dei sempre più frequenti “eventi climatici estremi”, come sono state le ultime piogge più che abbondanti. Dall’altro, alterando il territorio, antropizzandolo, cementificandolo, privandolo delle sue caratteristiche naturali originarie, distruggendo ecosistemi.
E quando diciamo “nostro” intendiamo proprio dire che siamo noi tutti a contribuire e a non fare abbastanza per prevenire. Noi, a livello locale, regionale e nazionale, noi nel nostro piccolo e come parte del mondo. Stiamo facendo la nostra parte per limitare e contrastare il cambiamento climatico? Stiamo facendo la nostra parte per prevenire i suoi effetti nefasti?
Questi eventi climatici fanno tornare a qualcosa che molti di noi sostengono da tempo: dobbiamo cambiare modello di sviluppo. Perché dobbiamo cambiare il modo in cui sfruttiamo la natura, utilizziamo il suolo e i terreni, i torrenti, le falde e i monti, liberiamo sostanze nell’atmosfera. «Cambiare modello di sviluppo» è una dicitura che fa allarmare i più ma qui non si tratta di «rovesciare il capitalismo» ma di rapportarsi diversamente all’ambiente e al territorio.
Del nostro territorio ci siamo curati poco e male, plasmandolo alle nostre esigenze, e ora questo sembra presentarci il conto. Eppure, ci possiamo chiedere: abbiamo fatto tutto quello che andava fatto per prevenire il dissesto idrogeologico, il degrado degli ecosistemi? Un territorio urbanizzato e cementificato non è solo impermeabile e “artificiale”, ma su di esso non c’è più vita né vegetale né animale. Le piogge, soprattutto quando cadono copiose, vi scorrono sopra dilavando, creando vorticosi flussi di acque distruttrici. La terra non riesce più a rispondere. Il vortice delle correnti che salgono dal mare in ebollizione genera turbini, che si abbattono con forza rovinosa.
Partiamo dal caso più recente. Il Piano di adattamento ai mutamenti climatici adottato dal Comune di Bologna nel 2015 intendeva limitare il rischio idraulico. I torrenti Ravone, Aposa e Meloncello erano individuati come criticità: è stato fatto ciò che già allora veniva indicato? Ci sono ben dodici corsi d’acqua che attraversano la città: si è fatto ciò che andava fatto? Il nostro territorio – bolognese e regionale – è a forte rischio idrogeologico, ma non si agisce in quel senso, mentre si continua a consumare suolo, impermeabilizzandolo, cementificando. Si dirà: il problema, in questo caso era altro, l’eccezionalità delle piogge. Ma non aver curato il rischio idrogeologico non ha certo aiutato.
I dati del rapporto 2023 dell’ISPRA sul consumo di natura e sulle emissioni di gas “serra”, che sono all’origine del cambiamento climatico, sono allarmanti, perché da anni riportano che la nostra regione è tra quelle che più “consumano” suolo. Un consumo che solo per il 10,8% avviene in aree già urbanizzate, mentre per il 58,3% è in aree semi-urbanizzate e a scarsa antropizzazione e per il 30,9% in aree naturali o rurali. Ciò che è gravissimo, nella nostra regione, è che il 32,2% del suolo viene anche consumato in aree considerate a “pericolosità idraulica” (alta nell’8%, media nell’11,8% e bassa nel 12,3% dei casi). Tra l’altro, il 62,7% delle aree edificate (per un totale di 33.116 ettari) ricade nelle aree a pericolosità idraulica media (quando la media nazionale è del 12,8%). A livello nazionale, nel solo 2022, l’incremento di suolo consumato ricadente in aree a pericolosità idraulica media ha raggiunto i 917,6 ettari, dei quali 433,1 solo in Emilia-Romagna (più i 92 ettari ad alta pericolosità e i 493,5 ettari a pericolosità bassa). Il suolo consumato totale è per l’8% entro i 150 metri da corpi idrici e il 9% entro i 200 metri. Nel solo 2022, ben 88,4 ettari sono stati consumati vicini a corpi idrici.
Anche le aree giudicate a “pericolosità da frana” sono occupate da superfici artificiali. In regione il 19,2% del suolo consumato è in quelle aree. Il 5,8% della superficie edificata (parte di quella consumata totale), ovvero 3.063 ettari, è in quelle aree.
Il consumo di suolo ha effetti indiretti sui servizi ecosistemici e la biodiversità anche in aree limitrofe a quelle costruite, causando fenomeni di degrado collegati all’urbanizzazione e all’espansione delle aree artificiali. Nella nostra regione, il 40% del suolo consumato ricade entro i 60 m da ecosistemi naturale, mentre il 54,7% è entro i 100 m.
Ai danni che apportiamo al territorio consumando suolo e contribuendo al suo degrado e al degrado degli ecosistemi, si aggiungono poi i danni che vengono dalle emissioni di gas “serra”.
Secondo i dati ISPRA, l’Emilia-Romagna produce 39.4 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti, seconda solo per quantità assoluta alla Lombardia (79.1 milioni). L’Emilia-Romagna, però, emette più gas delle altre regioni, in proporzione al PIL. Anche in rapporto alla popolazione, le emissioni non sono direttamente proporzionali e noi produciamo più gas “serra” degli altri in rapporto alla popolazione. La voce principale, per quanto riguarda la regione, non è la produzione di energia ma il trasporto su strada. Dei 97,7 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti emessi in Italia dal trasporto su strada, l’Emilia-Romagna contribuisce per il 9.4%, ben più della sua quota di residenti (7.5%). È vero, le emissioni di CO2 sono in calo ma meno che nelle altre regioni. Se è il trasporto su strada la maggiore fonte di gas “serra” in regione, perché non intervenire? Perché non favorire il trasporto pubblico (che disincentiva il trasporto privato)? Perché non intervenire sul trasporto su rotaia (che disincentiva quello su gomma)?
Il cambiamento climatico è adesso, non si possono procrastinare interventi che già da subito potrebbero avere effetto. Non possiamo pensare di agire poi perché è adesso che si deve correre ai ripari, adesso. Ogni albero, ogni zona verde andrebbe lasciata intoccata. Dirci che tra 50 anni avremo un parco alberi più ampio non serve ora, mentre può solo peggiorare le cose aumentare autostrade e corsie. È ora che si deve intervenire: curare il degrado idro-geologico, non costruire più, limitare il consumo di combustibili fossili quanto più possibile. Non si può pensare di alzare barriere – cemento per proteggerci dalle esondazioni – mentre continuiamo a impermeabilizzare i terreni, a immettere gas nell’atmosfera, a costruire strade e “grandi opere” mentre i naturali processi atmosferici si fanno più minacciosi, ora che ne abbiamo alterato le dinamiche. L’ambiente non è un’ossessione degli ambientalisti: curiamocene tutti perché il prezzo che dovremo pagare, se indugiamo oltre, sarà più alto. E ce ne pentiremo.