Vive la liberté!

Così muoiono le democrazie. Protestare non è più un diritto?


Gli studenti protestano a migliaia, in centinaia di università nel mondo occidentale. Chiedono una sola cosa: la fine dello sterminio a Gaza, lo stop alla macchina bellica israeliana. Non è un “nuovo ‘68” e non importa neppure: è un movimento che esprime un disagio profondo e un coinvolgimento ampio, e per questo merita la nostra attenzione e finanche la nostra solidarietà. Perché indica che ci si deve poter esprimere, che si deve poter dissentire da quanto decidono i governi.

No, non è che gli studenti che protestano, si accampano e occupano le università ci siano più simpatici dei milioni di palestinesi o arabi che già protestavano. Non è vero che siccome sono i nostri studenti, i nostri figli a protestare, allora la protesta ha un senso, mentre altrimenti non lo avrebbe – si pensi alle proteste in Iran – perché in fondo pensiamo che quelli siano “fanatici” e a noi lontani mentre questi li “riconosciamo”. Un malcelato residuo di pensiero coloniale.

No, la protesta degli studenti segue quella delle centinaia di migliaia di uomini e donne di ogni età che sono scesi nelle strade di Berlino, Londra, New York, Roma e tante altre città del mondo, non solo occidentale. Certo, questa protesta si è fatta “visibile” perché è finita sulle prime pagine a causa della brutale repressione, spesso, delle forze dell’ordine. Che è stata il più delle volte giustificata perché tra gli studenti si sarebbero inseriti “elementi esterni” che avrebbe deliberatamente provocato violenze. «Siamo tutti elementi esterni», è stato gridato in molti campus, ora.

Perché il nocciolo del problema è uno: come si può manifestare il dissenso, oggi? Cosa è consentito fare per opporsi, protestare, finanche boicottare? Ogni dissenso nasce sempre da un disagio e viene tipicamente manifestato da esili minoranze che, tanto più esprimono qualcosa che è condiviso, tanto più si allargano. Per quanto «possano avere ragione» nel criticare la brutale politica del governo israeliano nella sua opera di sterminio del popolo palestinese e di distruzione di Gaza, gli studenti in fondo rappresentano una “minoranza”, per giunta di rampolli figli della borghesia che studiano all’università. La maggioranza non la pensa come loro, si dice.

Perché lo fanno? Cosa vogliono? Chiedono che le università – e, quindi, per estensione, la società tutta – rompa i rapporti con l’industria bellica israeliana, con l’economia che sostiene la terribile macchina da guerra che sta annientando Gaza. Chiedono un “gesto”, qualcosa di concreto che i nostri governi, per ragioni “geo-politiche”, non vogliono fare: indebolire, isolare Israele. È una richiesta legittima e, in fondo, ingenua. Che bisogno ci sarebbe, infatti, di chiedere agli Atenei di interrompere i rapporti con Israele se a farlo fosse già il governo e il Paese tutto? Ma né i governi, né le forze politiche lo fanno e non hanno alcuna intenzione di farlo, e non è solo “real politik”. Perché Israele rappresenta l’avamposto occidentale in Medio Oriente e come tale va difeso, sempre e comunque.

La reazione di Netanyahu all’attacco di Hamas del 7 ottobre non doveva necessariamente essere questa. L’annientamento di Gaza non era affatto l’unica opzione possibile. Ad un attacco terroristico non si risponde con lo sterminio di un popolo. Come dunque opporsi a questo quando sono gli stessi governi a non opporvisi?

La questione palestinese è tornata prepotentemente alla ribalta. Troppo evidente è ormai agli occhi del mondo l’impari e iniqua condizione di un popolo a cui sono negati diritti e rappresentanza, che vive in una situazione di apartheid violento. Una questione la cui soluzione, dopo l’invasione di Gaza, appare non più rinviabile. Israele sta compiendo crimini di guerra – per questo è indagato dalla Corte dell’Aja, ora sottoposta al ricatto del disconoscimento – e va fermato. Come esprimere questa domanda? È sufficiente scendere in piazza, esibire bandiere? O bisogna fare di più? E cosa è consentito fare?

Nulla. La repressione pare l’unica risposta. Una violenza di Stato contro chi chiede la fine di una violenza ben più grave, quella della guerra. Perché chi vi si oppone, in fondo, vuole solo «la fine di Israele» ed è quindi “antisemita”.

Gli episodi di repressione sono ormai moltissimi. Il solo sventolare una bandiera – anche nella folla del Giro d’Italia – viene immediatamente represso. Non si possono tenere assemblee, convegni, incontri, se sono nel nome della Palestina. Nel democratico occidente ogni manifestazione pro Palestina viene vista come “antisemita” e quindi vietata. Per «difendere i soggetti ebrei oggetto di violenze».

Le nostre democrazie – è evidente – appaiono incapace di accettare il dissenso e ancor più di elaborarlo. Ma così muoiono le democrazie. Cresce il bellicismo dei governi – l’unico modo di affermare le proprie ragioni è quello della forza – e cresce il fastidio, l’insofferenza. E al bellicismo “esterno” si accompagna l’uso della repressione violenta “interno”. Un segno di involuzione autoritaria a cui non pare esservi opposizione. Si può (forse) non essere d’accordo con gli studenti, con chi vuole esprimere un dissenso. Ma non si può certamente essere d’accordo con la repressione violenta: reprimere è sempre sbagliato, tanto più quando si tratta di azioni “dimostrative” che nulla hanno di pericoloso, perché vuol dire limitare la libertà, che è il nostro valore più caro. Ma questo, a quanto pare, non preoccupa più.

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