Vive la liberté!

Il suicidio dell’Europa


(questo testo è stato preparato per l’incontro del 15 aprile 2024 con Franco Berardi e Ginevra Bompiani al Centro Costarena, ore 19.00)

L’Unione Europea era nata con altri scopi. All’indomani della Seconda guerra mondiale, ciò che guidò i leader europei fu l’idea di superare la storica contrapposizione tra le potenze europee – Francia e Germania in primis – con la Gran Bretagna dalla parte della Francia. E si pensò che ciò potesse avvenire attraverso la graduale integrazione e compenetrazione delle loro economie, anche perché era stata l’economia – e l’espansione capitalistica – a portare allo scontro titanico già nel corso dell’Ottocento e poi del Novecento. La Prima guerra mondiale era stato lo sbocco dello scontro imperialistico tra Francia e Gran Bretagna da un lato e Germania, con l’alleato austriaco, dall’altro. Gli Stati Uniti, potenza nascente, erano entrati nel conflitto dalla parte degli imperi in via di consolidamento, con la Russia zarista alleata nell’idea velleitaria di giocare un ruolo in Europa orientale.

Il disastro economico-sociale provocato da quel conflitto, però – lo sappiamo – portò alla reazione fascista e nazionalista. Dopo Spagna e Portogallo, la deriva autoritaria prevalse in Italia, Germania e Grecia. Hitler ridiede vita al progetto egemonico tedesco. I russi, grazie alla rivoluzione bolscevica, si sottrassero alla logica della guerra imperialista, pagandone poi il prezzo nei lunghi anni della guerra civile (foraggiata dalle potenze occidentali) anche se l’Unione Sovietica – dopo l’iniziale avventata mossa di Stalin di accordarsi con Hitler – giocherà poi a proprio favore l’entrata in guerra contro l’espansionista tedesco.

La Seconda guerra mondiale fu una guerra ideologica ma fu anche l’occasione per riportare a più miti consigli l’espansionismo tedesco. Un ben più minaccioso nemico venne però configurandosi in quegli anni, quello comunista, un nemico la cui “subdola” penetrazione poteva avvenire nei paesi capitalistici grazie al consenso che i movimenti comunisti costruirono, rafforzato dalla partecipazione alla Resistenza antifascista e antinazista in Europa. Dopo aver isolato per almeno due decenni il comunismo sovietico, all’indomani del conflitto i paesi capitalistici si trovarono così a fare fronte a due problemi: quello di superare la storica contrapposizione tra potenze economiche in Europa e quello di arginare il possibile espandersi del consenso comunista. La rivoluzione era stata evitata in Germania e in Italia, già negli anni Venti, ma il vento bolscevico aveva soffiato a lungo in Europa e persino negli Stati Uniti.

I governi e le élite borghesi nei paesi capitalistici capirono in quegli anni che quello era il vero nemico da battere. Così, il modello capitalistico, nei paesi a democrazia liberale, venne guidato in modo da consentire una migliore distribuzione del reddito che consentì, gradualmente, di svuotare la protesta operaia e vanificare così le prospettive rivoluzionarie. Ciò fu anche possibile grazie al portato colonialista e imperialista che seppe dare un’impostazione precisa allo sviluppo del commercio internazionale dal quale il blocco capitalistico occidentale seppe emergere egemonico nel corso dei quarant’anni successivi alla Seconda guerra mondiale.

L’idea di un Europa più integrata – fondata sul mercato comune – fu vincente. L’Europa accettò l’ombrello americano inizialmente per ragioni economiche e poi, con l’avviarsi della cosiddetta guerra “fredda”, anche per convenienza strategica (con tutti i distinguo del caso: Francia e Gran Bretagna, potenze atomiche di lì a poco, ma ancora fragili economicamente, la Germania senza esercito ma di nuovo in sella economicamente, l’Italia piccola economia in forte crescita). L’Europa si consolidò, trainata da una Germania leader che aveva nei Paesi europei i suoi principali partner e mercati di sbocco. Il capitalismo si consolidò, nella sua nuova dimensione “continentale”.

L’Unione Sovietica, dopo essersi garantito il dominio dei Paesi dell’Est europeo, si attrezzò con il Patto di Varsavia, nell’idea (vecchia) di poter avere delle teste di ponte in Europa nei Partiti comunisti. Ma era ormai un Paese a regime totalitario che, pur continuando a sbandierare l’idea del comunismo oltre le classi, non aveva nulla dell’ideale del superamento del capitalismo che ne aveva mosso le premesse.

Lo scontro, eventualmente, portò alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, tanto sul piano politico che su quello economico. Certo, la propaganda occidentale ebbe gioco facile sul terreno delle libertà civili.

Dissoltasi l’URSS, per gli europei, per gli occidentali, fu un tutt’uno – l’affermazione del modello democratico liberale accompagnata al superiore modello economico, quello capitalistico.

L’idea di un superamento “democratico” del modello sovietico, caldeggiata da leader come Brandt, Palme, Kautsky e poi dallo stesso Gorbaciov, si infranse contro il dilagare del modello capitalistico liberista, che prevalse. La conversione democratico-liberale dei Paesi dell’Est fu immediata e anche quella russa avvenne rapida, anche se meno lineare e trasparente. La transizione fu gestita dalle élite consolidatesi negli anni, senza un processo davvero democratico di crescita della società civile.

Dopo il crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS si affermò un’idea che finì per piegare, se non snaturare, l’idea stessa che aveva guidato l’Europa per un quarantennio: il modello capitalistico ha vinto, perché fondato sulla libertà, ha saputo garantire il benessere (e vanificare il bisogno di una rivoluzione operaia) e con esso, ha vinto la democrazia liberale. Si afferma un teorema: la democrazia ha vinto perché il sistema capitalistico la sostiene, il capitalismo ha vinto perché basato su un sistema di regole liberali.

Gli Stati Uniti hanno vinto la guerra “fredda” e si ergono a poliziotti del mondo. Nel 1991 intervengono in Iraq (prima guerra del Golfo), per portare Saddam Hussein a più miti consigli. In Europa, la dissoluzione della Jugoslavia viene lasciata a sé, sotto lo sguardo interessato di Germania e Austria (che appoggiano Slovenia e Croazia) e della Francia, che per storico “riflesso condizionato” appoggia la Serbia e ci va di mezzo la Bosnia, dove la NATO finalmente interviene nel 1995 per fermare il massacro e Milosevic. Fino alla forzatura sul Kosovo, nel 1999.

Il Trattato di Maastricht è del 1992 ed è l’apoteosi del mercato unico dal quale trae glorificazione il neo-liberismo che finalmente si afferma anche in Europa (la sua rivincita era cominciata negli anni Ottanta con Reagan e Thatcher). Anche le sinistre si convertono al credo. Caduto il muro, crollata l’URSS, il comunismo viene definitivamente abbandonato. E la prospettiva socialdemocratica vive la sua curvatura neoliberista: ciò che è importante garantire la crescita economica, al resto provvederà l’economia (non è stata la crescita a farci vincere?). Privatizzazione dei servizi pubblici, lo Stato deve recedere, l’Europa “sociale” viene accantonata a favore del neoliberismo concorrenziale.

Il capitalismo può finalmente correre per le vaste praterie che si aprono verso Est, all’insegna del liberismo selvaggio, dello smantellamento dello Stato del welfare. L’Unione Europea procede così nel suo progetto, che si conclude con l’allargamento agli ex-satelliti sovietici nel 2004 (la Croazia entra nel 2007). E anche la NATO, che dopo il crollo dell’URSS avrebbe dovuto sciogliersi, viene mantenuta in vita con un nuovo progetto espansivo, per blindare definitivamente l’alleanza capitalistica neo-liberista.

Dal 1989 ha inizio quel processo che va sotto il nome di globalizzazione. Rapidamente, nel corso di due decenni, si mettono in moto quei Paesi che erano detti “emergenti” riconfigurando, però, il quadro economico mondiale. Il capitale, finalmente, non conosce frontiere e la ridefinizione delle catene delle forniture, dei mercati delle materie prime e del lavoro porta ad un nuovo “ordine delle cose”: il capitale si afferma decisamente e definitivamente sul lavoro e la redistribuzione a favore del primo inizia inesorabile.

In questo processo, la vocazione “imperiale” degli Stati Uniti si dispiega in pieno. Feriti dall’attacco delle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, scatenano la “guerra al terrorismo” che li porta all’invasione dell’Afghanistan prima e dell’Iraq poi, coinvolgendo la NATO e l’Europa. La crisi finanziaria ed economica del 2008 non ne altera la traiettoria. Il capitalismo, con la globalizzazione, vede progredire due tendenze: la finanziarizzazione e la rilocazione della manifattura in Cina, India e nei paesi emergenti. I paesi occidentali mantengono il primato militare e tecnologico, con Giappone e Corea del sud parte del blocco. Ma Cina, India e gli altri emergono, facendosi via via competitor sempre più agguerriti. Lo scambio, con paesi come la Russia che fatica ad entrare nel circolo europeo è quello di prodotti contro materie prime.

L’Europa, in questo processo, vacilla. La sua vocazione liberista si accentua, anche se il modello si incrina e il patto sociale che ne era alla radice la sorregge si appanna. All’espansione ad Est, conveniente dal punto di vista economico, non corrisponde uguale linfa vitale per il suo vecchio modello di “capitalismo temperato” che ne era stato la linfa vitale. Gli effetti della globalizzazione si fanno sentire, soprattutto sul piano sociale e del lavoro, e lo stesso modello democratico liberale entra in crisi, con i populismi nazionalisti che riguadagnano terreno. Sotto la spinta del capitalismo globalizzato, l’affermazione di questo e il primato del mercato sullo Stato ridanno fiato alle rinascite nazionalistiche, tanto nei paesi dell’Est che in Russia.  

Mentre in Russia Putin sfrutta la ripresa economica in chiave nazionalista, l’Europa si chiude, illudendosi che lasciando al mercato ogni apertura tutto si risolve e potrà così mantenere la sua posizione privilegiata di cuore del capitalismo.

Ma è una hybris che la porta lentamente sull’orlo del baratro. Il capitalismo finanziarizzato e globalizzato produce l’aumento delle disuguaglianze che gli anni della crescita avevano frenato con più accorte politiche distributive. Sotto l’inevitabile effetto della globalizzazione, che accentua le disuguaglianze crescenti, la fortezza Europa si vede assalita e l’unica risposta che sa dare è quella della chiusura. Il neoliberismo è vincente, sì, ma solo per il capitale, e dopo tre decenni le disuguaglianze economiche e di classe in Europa sono tornate ai livelli della Belle Époque.

La guerra in Ucraina – dopo anni di allargamento della NATO e il torbido processo di democratizzazione nel Paese sfociato nella guerra civile nel Donbas con il sostegno militare della NATO – offre agli Stati Uniti di ristabilire le convenienti gerarchie strategiche che erano venute meno. L’operazione è subdola, perché mette in crisi le relazioni economiche che l’Europa – con la Germania in testa – era venuta costruendo con la Russia. Nella nuova guerra “fredda” o per procura combattuta con la Russia, a pagare è l’Europa. Che, ormai cieca nel perseguimento delle sue politiche liberiste, non vede altra via d’uscita se non quella del riarmo.

Il credo fondante che l’aveva portata alla creazione di un mercato unico – con la prospettiva di un’integrazione crescente fondata sull’armonizzazione delle politiche economiche e sociali e un’attenzione agli squilibri – appare definitivamente messo in ombra. E lo scivolamento verso il baratro inevitabile.


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