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La guerra inutile e il suo costo


Nei giorni in cui Zelensky propone una “conferenza di pace” a Ginevra (le virgolette sono d’obbligo, visto che i russi non sarebbero invitati), viene da chiedersi una volta di più a chi giovi questa guerra, qual è il suo costo e chi lo pagherà. Iniziata formalmente con l’invasione russa del 24 febbraio 2022, essa stava già covando almeno dal 2014, quando in seguito alla rivolta di “Euro-majdan” le due province del Donbas, a maggioranza russa e filo-russa, avevano proclamato la secessione e Mosca aveva deciso di annettersi la Crimea e Sevastopol. 

L’Ucraina è un Paese i cui territori e confini sono il risultato di processi che vanno indietro nel tempo (com’è la Polonia attuale, in qualche modo diversa dalla Polonia “storica”) e che furono decisi ai tempi dell’URSS, dopo la Seconda guerra mondiale, e poi codificati nel 1991 con l’indipendenza. Un paese dalle molte nazionalità e comunità linguistiche – rumeni e moldavi nel sud-ovest, polacchi nel nord-ovest, russi nel sud-est e nell’est, ucraini al centro – che si erano poi andati parzialmente confondendo, spostandosi all’interno. Se, alla decisione del Donbas di secedere il governo aveva risposto con la forza, dando però luogo, in tal modo, a una guerra civile strisciante che in otto anni aveva provocato 14 mila morti, le susseguenti politiche avevano in qualche modo esacerbato le tensioni interne, imponendo quella “ucrainizzazione” che aveva esacerbato il confronto con la componente russa e filo-russa. Fino a scatenare, al di là del supporto ai separatisti, l’invasione militare delle truppe di Mosca.

Quanto questa abbia risposto all’atavico espansionismo russo, ad una qualche latente deriva “imperiale” – «l’Ucraina non esiste, è sempre stata Russia» – piuttosto che non a una logica “difensiva” è ancora da dimostrare. Perché dal crollo dell’Unione sovietica in poi, nonostante il venir meno del Patto di Varsavia, l’inclusione degli ex-satelliti nell’Unione Europea prima e della NATO dopo, Mosca ha visto progressivamente crescere attorno a sé una nuova cortina. È vero, a occidente è sempre stato noto come l’orso russo abbia sempre covato uno spirito “espansionistico” verso ovest. Ma è sempre stato altrettanto chiaro come una cosa è volersi espandere, un’altra è poterlo fare. L’Occidente, sin dai tempi della guerra di Crimea (1857), della minaccia russa ha fatto quasi un “mito”, costruendovi un’ideologia, che è stata poi alla base della Guerra fredda. Che poi questa servisse non tanto per demonizzare la Russia ma criminalizzare il comunismo è cosa nota. L’ironia, però, è che sepolto il comunismo è rimasta la Russia – un’economia modesta, ma pur sempre con il suo arsenale atomico – e tanto è bastato per farne un nemico, funzionale all’idea che da questa parte del mondo vi possa essere una sola super-potenza con i suoi alleati attorno.

Oggi, la minaccia dell’espansionismo russo è tornata ad essere brandita e la possibilità di una guerra “necessaria” per difendersi da un attacco russo viene considerata nell’ordine delle cose dai nostri ciechi leader politici. Senza alcuna giustificazione.

Nel 2021 l’Ucraina aveva un Pil valutato in 200 miliardi di dollari a prezzi correnti. Un valore che, in termini reali, era però ancora appena due terzi di quello del 1989. Un paese povero, come i suoi vicini ex sovietici, con un reddito pro capite di appena 4.100 euro (contro, ad esempio, i 10.330 euro della Bulgaria, suo vicino e il più povero della UE). La guerra ha naturalmente messo in ginocchio un’economia agricolo-industriale, che esportava cereali, olii di semi e materie prime minerali e metallurgiche, anche se oggi in parziale ripresa. Un Paese che, però, non solo aveva uno dei tassi di natalità più bassi in Europa e un’alta migrazione ma che, con la guerra, ha visto andarsene 6.4 milioni di persone (e 3.7 hanno dovuto lasciare le proprie case), pari al 23% dell’intera popolazione, tutte persone in età lavorativa o giovani. Se la guerra si fermasse oggi, è stato stimato, la ricostruzione costerebbe 486 miliardi nei prossimi dieci anni (più di due anni di Pil): il danno effettivo stimato alle infrastrutture è di 152 miliardi (tre quarti del Pil di un anno) mentre il danno indiretto è valutato nell’ordine dei 500 miliardi.

La Russia, dal canto suo, non pare aver risentito né dell’effetto delle sanzioni, né dello sforzo bellico, se non per il costo umano (viene stimato in 450mila il numero dei soldati russi uccisi, contro i 120mila soldati e 19mila civili ucraini). Il Pil russo, che già nel 2008 aveva superato il valore, in termini reali, del 1989 e che ha anche superato il valore raggiunto nel 2014, quando era stata colpita dalle sanzioni internazionali, oggi continua a crescere. Spinto dalla spesa pubblica e militare, ma anche dai consumi e dagli investimenti, esso mostra che l’economia russa si era già adattata alle sanzioni e che ha saputo diversificare i suoi mercati di esportazione. Mentre l’Europa ha tagliato di molto le sue importazioni russe (ma anche le esportazioni), la Russia ha trovato buoni partner commerciali nella Cina (che lo era già), nell’India e in molti altri paesi. Certo, i suoi problemi restano l’isolamento sui mercati finanziari internazionali e la costante uscita di capitali. Gli oligarchi, per quanto amici di Putin, continuano a portare i propri lauti profitti altrove (come hanno sempre fatto e fanno anche i loro colleghi ucraini).

Oggi, l’Europa vuole correre ad armarsi contro un nemico che si è costruita da sé, per contentare la super-potenza che la protegge, anche contro i suoi interessi (sono gli USA, per inciso, il nostro maggior fornitore di gas naturale, oggi, a un costo ovviamente maggiore). La Russia si è impelagata in un conflitto che ha un costo, non solo umano, che diverrà presto una zavorra. Il governo ucraino, che non pare voler venire a patti con la storia multi-nazionale del Paese, dovrebbe forse accettare l’idea di una neutralità che gli farebbe molto comodo, coltivando buoni rapporti a est come a ovest. Ma, certo, siamo noi che gettata alle ortiche l’ideologia della minaccia russa dovremmo convincere noi stessi e loro che un futuro diverso è possibile, dicendo basta con questa guerra inutile.


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