Vive la liberté!

Vademecum per la sinistra che non c’è


3 gennaio 2023

Nel ricordare il 22 dicembre la scomparsa di Alberto Asor Rosa, il manifesto ha ripubblicato un articolo che questi scrisse nel giugno 2010, «Vademecum per il partito che non c’è». Ciò che stupisce, nel rileggerlo, è non solo la lungimiranza, quanto la sua attualità: provate a rileggerlo, senza far caso alla data, e vi sembrerà scritto oggi. Il che, evidentemente, porta ad un’altra osservazione: che da allora, nel Pd, non è cambiato nulla (e non a caso, forse, le cose sono andate, da allora, di male in peggio). Ma ciò che è ancor più sconfortante è che oggi, quel vademecum, andrebbe scritto per la sinistra tutta, quella che c’è e, soprattutto, quella che non c’è.

Ci sono tre punti che Asor Rosa poneva come bussola per la rotta da seguire: che ci debba essere un partito organizzato e «non grillinamente (o berlusconiamente) liquido»; che non è più tollerabile l’autoreferenzialità; che debba essere il lavoro e la sua crisi – «fattore discriminante per il distino del paese» – al centro (al di là dell’etichetta). Punti ancora centralissimi per un discorso, si badi bene, che non vale solo per il Pd, ma per la sinistra tutta (e già Asor Rosa lo poneva in questi termini).

Sono passati più di tre mesi dalle elezioni più disastrose della storia repubblicana e la sinistra, come un pugile suonato, continua a girare su se stessa, adagiata sul refrain che ascolta in cuffia, inerte, appena conscia che al governo ora ci sono le destre, quelle vere, più per colpa della sua inanità che per il consenso raccolto nel paese. Nel Pd si è aperto un dibattito che pare più uno psicodramma che una discussione serrata su strategie, politiche, idee di fondo. Nell’altra sinistra si traccheggia: ognuno coltiva il suo orticello, rivendica lotte ed erge bandiere, mentre il mondo là fuori fa i conti con gli sviluppi del capitalismo maturo, il cui rullo macina rovine inghiottendo i relitti della storia che esso stesso produce.

Negli ultimi 20 anni, in Italia, il consenso delle sinistre (escludendo le liste di «centro») si è ridotto, in termini elettorali, da 17,7 a 7 milioni di voti che, se aggiungiamo i 5 Stelle oggi, arriva a 11,4 milioni. Quello delle destre, invece, è rimasto invariato. Se poi consideriamo che tra il 2006 e il 2022 l’affluenza è scesa dall’83.6% al 63.8%, non si può non concludere che sono le sinistre – tanto il Pd quanto le altre – ad aver perso per strada il loro elettorato, disilludendolo profondamente.

A fronte di tutto ciò, avete forse notato un fervere di discussioni, articoli, libri, convegni? Potremmo citare tre libri, dicasi tre, dedicati al tema: quello di Stefano Fassina, quello di Goffredo Bettini e quello, più analitico, di Antonio Floridia. Il Pd ha avviato un «congresso» ma di cosa si discuta non è dato capire. Cuperlo parla di ritorno alle origini delle «ragioni della sinistra», Bonaccini di ceti «produttivi», Schlein di diritti, libertà, emancipazione. Sinistra Italiana non sembra essere passata da un test elettorale: da quelle parti, non paiono esistere ragioni per discutere. Unione Popolare – che pure era nata per unire, che vuol dire aprirsi – è ancora alla ricerca di un equilibrio interno tra forze che preferiscono «marcare il territorio» più che aprirsi al mondo. Tra gli intellettuali che discutono – per lo più in articoli di giornale – è una lista di prognosi fatte da dottori di cui il paziente poco si cura (Andrea Orlando, a un dibattito, ha detto che «dobbiamo fare un congresso, mica un convegno»). Così marcia la sinistra disunita alla ricerca di sé e di una ragione per esistere.

Eppure, di ragioni ce ne sarebbero e ne vorrei elencare qui almeno tre. Tre numeri da cui dovrebbe ripartire qualunque sinistra: 37, 25, 33. La prima è la quota percentuale sul totale degli occupati di «operai e assimilati». La classe operaia non esisterà più, come una certa vulgata ama dire, eppure gli operai rappresentano ancora il 40.5% del totale dei lavoratori dipendenti e il 28.7% degli indipendenti (in proprio), il 37.3% in media, appunto. La seconda è la quota percentuale degli italiani sotto o sulla soglia di povertà o esclusione, uno su quattro. La terza è la quota dei lavoratori – uno su tre – che vive con meno di mille euro lordi al mese. Queste sono le classi popolari, questi sono gli italiani per i quali il sistema andrebbe profondamente trasformato. Queste dovrebbero essere le classi cui guardare, che la sinistra, invece, ha dimenticato, resasi convinta che i mercati, lasciati liberi, avrebbero portato a una condizione accettabile per tutti. Il che, evidentemente, dopo tre decenni di neo-liberismo è lungi dall’essersi verificata.

Ciò che è peggio è che la stessa «prospettiva di classe» è stata abbandonata. La mobilità sociale, in questo paese, è ferma. Chi nasce povero, povero resta. A sinistra si è talmente assimilata l’idea che le classi «non esistano più», che sia tutto «ceto medio», che la prospettiva dell’emancipazione è stata fatta divenire un fatto individuale e non di classe, con il portato di frustrazione e rabbia sociale che ciò comporta. In assenza di prospettiva, ciò che conta è il farsi strada da sé, e non importa come. Dimenticato il solidarismo di classe, perduta la rappresentanza, ai ceti popolari non resta che «credere» nel capitalismo selvaggio e accettarne le prerogative. Ne ha da fare di strada la sinistra per ritrovare quei ceti. Eppure, quelli sono lì, in attesa di qualcuno che dia loro voce.

pubblicato sul manifesto del 7 gennaio 2023