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L’occupazione delle terre, la civiltà contadina e Rocco Scotellaro


27 ottobre 2022

«È caduto Novello sulla strada all’alba, a quel punto si domina la campagna, a quell’ora si è padroni del tempo che viene» cantò Rocco Scotellaro nella sua Montescaglioso per ricordare Giuseppe Novello caduto per protestare l’arresto dei contadini che andavano a occupare le terre, in quel dicembre del 1949.

Riparlare oggi di occupazione delle terre è, forse, solo un esercizio storiografico. Furono moti contadini che reclamavano a centinaia di poter coltivare terreni lasciati incolti, sui quali poterci vivere, per rompere quel giogo di miseria e sottomissione che si era protratto per secoli. Ce n’erano state già al tempo della spedizione dei Mille, in Sicilia, sedate nel sangue. Ce ne furono in tutto il Paese, dopo l’unità, soprattutto in Meridione dove era stato diffuso il feudalesimo, con i latifondi di proprietà di pochi possidenti, per lo più insediati nelle città, e braccianti e fittavoli addensati nei grandi borghi rurali da cui muovevano per il lavoro nelle campagne. In Sicilia i Fasci siciliani di fine Ottocento furono repressi nel sangue, come gli scioperi e le occupazioni della «Lega dei Contadini» di Luigi Loperfido in Basilicata nel 1902 in cui trovò la morte il bracciante Giuseppe Rondinone. E anche nel primo dopoguerra vi furono moti e occupazioni della terra da parte di quei contadini cui i generali l’avevano promessa per chiamarli alla guerra. Nulla era cambiato, però, e l’immobilità dell’economia rurale meridionale si era protratta.

Così, i movimenti contadini erano ripresi nel secondo dopoguerra con l’occupazione delle terre in Sicilia, Calabria, Basilicata e Puglia. I contadini chiedevano «pane e lavoro», e volevano in concessione terreni per poterli lavorare anziché essere costretti al lavoro controllato dal caporalato, in virtù del decreto del 1944 che portava la firma del comunista Fausto Gullo. Varie rivolte si ebbero già tra il 1943 e il 1945, ma la reazione degli «agrari» fu violenta, con il ricorso alla mafia, che assassinò sindacalisti come Placido Rizzotto o Giuseppe Maniaci o gli 11 contadini uccisi nella strage di Portella della Ginestra. In quegli anni, in tutto il Meridione dilaga la richiesta di una riforma agraria di cui il governo De Gasperi si fa in qualche modo interprete pur scontrandosi con l’ostinata opposizione degli agrari. Nel 1949 si susseguono agitazioni ed occupazioni di feudi, terre incolte e demani. La reazione delle forze dell’ordine guidate da Scelba, però, è dura, ed eccidi di contadini e braccianti si susseguono a Melissa (Crotone) con tre morti il 29 ottobre del 1949 e a Torremaggiore (Foggia) con due morti il 29 novembre dello stesso anno. Anche se i moti sono per lo più spontanei, le organizzazioni sindacali li sostengono.

In Basilicata, il centro del movimento è Montescaglioso, ove la Camera del Lavoro organizza la sistematica occupazione di terreni nei demani e nella valle del Bradano.  Le occupazioni proseguono per tutto il mese di dicembre del 1949 – in 19 comuni – e vedono in prima fila soprattutto le donne. Nella notte tra il 13 ed il 14 dicembre, reparti di Polizia e Carabinieri, dopo aver interrotto l’energia elettrica, rastrellano Bernalda e Montescaglioso arrestando i dirigenti del movimento, tra cui molte donne. A Montescaglioso, i Carabinieri mitragliano il corteo di contadini che cercano di impedire la traduzione degli arrestati nelle carceri, provocando numerosi feriti, uno dei quali, Giuseppe Novello, cade ferito tra le braccia della moglie Vincenza Castria e morirà il 17 dicembre. Giorno in cui le organizzazioni sindacali e gli agrari firmeranno i primi accordi che prevedono la concessione in fitto a contadini senza terra di circa 5.000 ettari.

Quei fatti ebbero un’eco nazionale, che costrinse il governo a prendere quei provvedimenti che porteranno nel 1950 alla Riforma agraria di Antonio Segni e delle leggi «stralcio». Erano le prime proteste per la terra del Meridione nell’Italia Repubblicana, che mettevano in luce il rapporto feudale che ancora vigeva tra il proprietario terriero – il barone, l’agrario – e il contadino, condizione che era stata perpetrata e favorita dal fascismo.

Rocco Scotellaro ben conosceva quel dramma, dopo aver vissuto l’infanzia e la sua giovane età adulta a Tricarico, un centro rurale nel materano, ed era conscio della situazione disumana in cui sopravviveva la «civiltà contadina»: le carenze alimentari e igienico-sanitarie, un caporalato spietato e intransigente, l’estrema e costante povertà. Rocco scrive poesie e racconti, studia, si unisce ai sindacati e ai contadini che protestano, si iscrive al Partito Socialista e ne apre una sezione nel paese. Nel 1946, all’età di ventitré anni, viene eletto sindaco di Tricarico e sarà rieletto, anche se verrà incarcerato per un accusa di malversazione infondata.

Rocco Scotellaro vede nella lotta politica il mezzo ideale per il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini e nella sua attività si dedica quasi esclusivamente allo sradicamento di quelle fonti di malessere secolare, partecipando anche all’occupazione delle terre incolte, divenendo poi tra i maggiori promotori della Riforma Agraria nel Sud e in particolare in Basilicata. Nei suoi canti riverbera l’enfasi del riscatto politico e sociale della «civiltà contadina», da cui prendono spunto per poi trasformarsi in versi d’incitamento le sue composizioni, in cui protagonisti sono i contadini stessi, pronti a rivendicare i propri diritti. Una lirica che diventa incalzante, sferzante, quasi epica, a celebrare l’ingresso nella modernità della civiltà rurale meridionale.

Gli scontri e la riforma portarono alla distribuzione dei latifondi ai contadini, in appezzamenti troppo piccoli, dove non sempre arrivava l’acqua delle bonifiche e delle dighe. E in meno di un decennio quei terreni, così faticosamente strappati agli agrari, vennero gradualmente abbandonati. Fallirono le cooperative, i contadini lasciati a se stessi senza un vero programma furono costretti ad emigrare. Fallì la riforma, perché all’Italia che «ripartiva» come una locomotiva lanciata verso il boom andava bene che quell’esercito di manodopera fosse disponibile per l’industrializzazione del Nord. Ma fallì anche il mito dell’industrializzazione del Sud, fondato sulla grande impresa industriale che doveva essere la panacea dello «sviluppo», quella particolare «ideologia» a cui si sacrificò nei decenni successivi ogni criterio di equilibrio, quell’idea secondo la quale per le regioni arretrate lo sviluppo consiste nel far convergere la propria struttura produttiva verso un modello di riferimento tutto esterno, senza tener conto delle risorse endogene e dei legami storici, geografici e biologici che sussistono con il territorio. Disperdendo alla radice quella «cultura contadina» autonoma di cui Rocco aveva visto il potenziale aggregativo e progressivo, anche oltre Carlo Levi.