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E la pandemia? Non parliamone


23 settembre 2022

E la pandemia? Ne avete sentito parlare durante la campagna elettorale? La pandemia, ciò che ha provocato, come è stata gestita e come se ne è usciti (quasi) è stata completamente rimossa. E dire che ha provocato più di uno shock, più di una frattura, e dovrebbe aver insegnato più di una lezione. Certo, come per tutti i traumi, si tende a rimuoverla, a buttare dietro alle spalle un’esperienza che per molti è stata orribile, penosa, luttuosa, per molti versi indimenticabile. Ma noi, come Paese, non dovremmo dimenticarla trarre molte lezioni. Per ciò che ha “funzionato” e per ciò che non è andato bene.

Innanzitutto, la pandemia non è finita, anche se molti all’OMS stanno pensando di declassarla a “epidemia” o anche “malattia endemica”. L’Italia, nelle statistiche, risulta l’ottavo paese al mondo per numero totale di morti (176.775 a ieri), il terzo in Europa dopo Russia e Gran Bretagna. Siamo anche l’ottavo paese per numero di casi registrati (22,2 milioni), ma sappiamo che quello è un numero da prendere, ormai, “con le pinze”. Quel che è però più appariscente è il numero di decessi per abitante, che misura l’incidenza. Tra i paesi europei, la graduatoria vede in testa tutti i paesi dell’Est, più la Grecia (al 13° posto). A seguire, i paesi dell’Ovest, con l’Italia in testa, con 29,3 morti ogni 10mila abitanti. Siamo il paese che, percentualmente, ha avuto il più alto numero di decessi.

Quei decessi hanno riguardato per lo più le fasce di età più avanzate. Circa l’85% dei morti, infatti, ha colpito persone con più di 70 anni. In particolare, più di 42mila sono stati quelli tra 70 e 79 anni, più di 69milaquelli tra 80 e 89 anni e più di 35mila quelli con più di 90 anni. Questo dato, però, va messo insieme a un altro dato: il 97% dei decessi, infatti, ha riguardato pazienti con altre patologie (diabete, dell’apparato circolatorio, dell’apparato respiratorio, tumore, obesità). Ora, è noto che sono soprattutto gli anziani a soffrire di quelle patologie che nascono da “malattie non trasmissibili” che, secondo alcune definizioni, configurano una vera e propria “epidemia”. Ed è per questo che gli anziani sono stati tra i più colpiti. Ed è per questo che, nel caso della pandemia da coronavirus, si è parlato di “sindemia” (la sinergia di più epidemie). Come è altresì noto, però, quelle patologie sono legate alle condizioni di vita, all’alimentazione, alle condizioni abitative, cioè, in ultima analisi, alle condizioni “socio-economiche”. Sono le persone nelle condizioni più disagiate che hanno sofferto di più. La pandemia, quindi, è stata profondamente diseguale, colpendo i più fragili sia dal punto di vista fisico e sanitario che da quello delle condizioni di vita.

Sulla mortalità hanno senz’altro avuto un effetto i vaccini. I nuovi vaccini che sono stati introdotti hanno ridotto la mortalità generale e, in particolare, delle fasce più esposte. Quei vaccini, però, come abbiamo appreso, sono basati su un dispositivo (detto m-RNA) che interviene sul virus, che è stata una novità. Per quanto sappiamo, una caratteristica di questi vaccini è che non danno una immunità “permanente” (come ad esempio nel caso del vaiolo), anche perché qui si tratta di una malattia virale, non batterica, e il coronavirus della SARS-Cov-2 (il Covid-19) ha mostrato di “evolvere”, cioè mutare. L’immunità indotta dai vaccini, dopo l’iniziale entusiasmo con il quale erano stati pubblicizzati, ha mostrato di svanire nel tempo (mentre invece, come dimostrano gli studi recenti di cui ha parlato in più di una sede Sara Gandini, l’immunità acquisita dall’aver avuto il Covid-19 sembra essere molto più duratura). Se a ciò si aggiunge che il virus si è già prodotto in una serie di “varianti” che hanno vanificato l’efficacia dei vaccini (sperimentati su tipologie di virus precedenti), si può così affermare che l’effetto complessivo dei vaccini è stato utile a diminuire l’impatto del virus, senza però portare in alcun caso alla sua eradicazione.

Peraltro, i vaccini che sono stati adottati non sono in grado di ridurre il contagio – ogni vaccinato rimane “portatore sano” del virus – ma solo di ridurre gli effetti patogeni del virus. Eppure, si è fatto l’errore di ritenere la vaccinazione utile a ridurre la diffusione del virus, quando era noto che così non era, al punto di introdurre l’obbligo di vaccinazione (anche quando questa aveva già coperto l’80% della popolazione adulta). La vaccinazione avrebbe dovuto interessare sempre e comunque le persone fragili – con alte patologie o fragilità – e non la popolazione tutta, dal momento che non avrebbe inciso sulla diffusione del contagio. A ciò si deve aggiungere che i nuovi vaccini hanno presentato contro-indicazioni sulle quali non è stata fatta sufficiente chiarezza e sulle quali si è voluto sorvolare con superficialità. E ciò ha portato a un rifiuto del vaccino da parte di una fascia della popolazione che, ancorché minoritaria, è stata stigmatizzata. L’obbligo di vaccinazione è stata un’inutile forzatura che ha condotto solo a un’ulteriore frattura sociale, con l’emarginazione di persone che, per le ragioni più varie, anche sanitarie, non ritenevano di potersi vaccinare.

Una delle ragioni per cui l’assunzione dei vaccini è stata prescritta – dal governo italiano come in altri paesi – è che nelle fasi di picco del contagio, il numero delle ospedalizzazioni e poi dei ricoveri in terapia intensiva, finiva per mettere il sistema ospedaliero sotto stress. Su questo, le critiche sono state molteplici. Innanzitutto, si è spesso sbagliato l’approccio alla malattia, nel suo trattamento iniziale, nella cura. Le direttive date ai medici di base e in generale alla popolazione sono state in taluni casi fuorvianti. In secondo luogo, è apparso chiaro che l’insistenza sui vaccini non era tanto finalizzata a ridurre il contagio – ciò che non poteva fare – quanto a ridurre la pressione sul sistema sanitario. E in due anni, non è stato fatto nulla perché quel sistema fosse in grado di assorbire quella pressione, né con nuove strutture né con personale aggiuntivo. Il governo ha gestito la pandemia senza fornire al sistema sanitario, nel suo complesso, di una più adeguata capacità. Si è voluta affrontare una crisi straordinaria con mezzi ordinari.

La pandemia non si è diffusa in tutte le regioni allo stesso modo. Sia il numero di decessi totale che in proporzione agli abitanti è stato molto diverso. Quattro regioni del Nord – Friuli V.G, Valle d’Aosta, Lombardia ed Emilia-Romagna – hanno avuto più di 40 decessi ogni 10mila abitanti. Altre cinque regioni – Liguria, Piemonte, Veneto, Toscana a Trentino Alto Adige – hanno avuto più di 29 decessi ogni 10mila abitanti. Le regioni del Centro-sud sono state meno colpite. Due possono essere le spiegazioni, ma su questo non vi sono ancora studi accurati. La prima è che le regioni suddette sono quelle ove vi sono gli agglomerati urbani più grandi e più diffusi, con la conseguente maggiore concentrazione di anziani. Tuttavia, anche Lazio e Campania presentano densità urbane elevate e, ciononostante, l’incidenza della mortalità è stata minore (attorno ai 20 per 10mila abitanti). La seconda spiegazione punta alle differenze tra sistemi sanitari. Come è noto, infatti, nonostante l’Italia si sia dotata nel 1978 di un Sistema Sanitario Nazionale, il sistema sanitario, nei fatti, è molto “regionalizzato”. Sappiamo ad esempio come in Lombardia il sistema abbia privilegiato l’ospedale alle strutture territoriali e la privatizzazione dei presidi. Il sistema “decisionale” e organizzativo nella sanità è diverso da regione a regione. Che la regionalizzazione della sanità abbia quindi avuto il suo peso è indubbio.

Eppure, a fronte di tutto ciò, nulla sembra essere cambiato. Il nostro paese, che come altri paesi avanzati doveva essere preparato all’eventualità di una pandemia – che molti scienziati avvertivano sarebbe arrivata prima o poi – si è dimostrato totalmente impreparato (ma su questo tutti hanno ribadito che si trattava di un evento di gravità eccezionale, discolpandosi). Dopo i lockdown iniziali – benedetti da tutti, e che però hanno provocato gravi danni nel tessuto sociale ed economico, compensati poi dai vari “ristori” – si è proceduto con direttive varie – le regioni colorate, l’obbligo di mascherine, etc. – finché non sono arrivati i vaccini a togliere le uova nel paniere ai governi in imbarazzo. La popolazione si è giudiziosamente messa in fila per vaccinarsi – con una risposta encomiabile, che ha interessato la sua larga parte – ma il contagio non ha smesso di infierire, come non poteva che essere. Invece di procedere ad una vaccinazione mirata, si è voluto estendere il vaccino a tutti, con l’obbligo, senza però andare a incidere sulle cause del contagio. Il che ha provocato lacerazioni e fratture. I più fragili, fisicamente, economicamente, sono stati lasciati al loro destino. Si sono somministrate nuovi dosi di vaccino, con una risposta via via minore (come non poteva essere). Una volta che si è capito che i vaccini hanno durata limitata e non sono efficaci contro le nuove varianti, la popolazione si è silenziosamente ritratta. E il virus, evolvendosi, ha continuato a contagiare, tanto che oggi si può stimare che almeno un terzo della popolazione sia immunizzata (e patetici appaiono gli appelli a nuove dosi per tutti). Il fatto è che non si è fatto nulla per rafforzare la sanità e intervenire sull’organizzazione del sistema sanitario. La spesa pubblica messa a bilancio per la sanità dal governo Draghi è inferiore a quella degli anni precedenti, confermando la linea di tendenza degli ultimi anni. In sostanza, sembra che la lezione della pandemia non sia servita a nulla.

Ed è per questo, forse, che né Giuseppe Conte, né Roberto Speranza né Enrico Letta parlano della pandemia. Perché c’è stato molto di cui, per molti versi, non possiamo andare fieri. Un’esperienza fallimentare, ove le origini del fallimento sono antiche. Bisogna cambiare approccio.