Vive la liberté!

Della guerra, dell’economia e d’altro


22 settembre 2022

C’era una volta la realpolitik. Quando gli americani intervennero in Vietnam, prima alla chetichella e poi via via in modo massiccio, lo fecero per sostenere un regime autoritario che si era instaurato nel Vietnam del Sud, combattuto dalla resistenza locale dei Viet-cong, supportata dal Vietnam del Nord, dove gli uomini e le donne di Ho Chi Min avevano combattuto e vinto la guerra di liberazione contro i francesi e instaurato un governo comunista. Che aveva il pieno e dichiarato appoggio dei Sovietici, dei Cinesi e di altri paesi comunisti. Già a quel tempo, i Sovietici erano una potenza nucleare. Il fatto che vi fosse uno scontro «per procura» tra americani e russi, però, non fece mai venire in mente a nessuno (dei contendenti e dei commentatori) che si potesse arrivare ad una guerra nucleare. Forse perché il ricordo di Hiroshima e Nagasaki era ancora troppo vivo? La realpolitik prevalse e tutti lasciarono (obtorto collo) che la guerra avesse il suo esito sul campo e fu più forte la resistenza del popolo vietnamita, del Sud ma anche del Nord, bombardato di continuo dagli americani, che alla fine prevalse.

Anche in Afghanistan non si giunse mai a tanto. I sovietici, intervenuti a difesa di un regime amico che ne aveva chiesto l’intervento, si trovarono presto a mal partito contro la resistenza dei mujaheddin foraggiati dagli americani con armi e attrezzature. Così, dieci anni dopo se ne dovettero andare con la coda tra le gambe (saggio fu Gorbaciov). Ma anche in quel caso, nel confronto a distanza tra americani e sovietici, non si arrivò mai a palesare la possibilità di una guerra nucleare.

Ora, nel caso dell’Ucraina – anche qui «giustificato» da Putin dalla necessità di difendere il Donbass filo-russo, martoriato da sette anni di guerra strisciante (con l’esercito ucraino già aiutato dagli americani contro i ribelli filo-russi fomentati da Mosca) – si sta invece ventilando da entrambe le parti la possibilità di un’escalation nucleare: da parte degli americani che dicono «attenti, Putin potrebbe usare l’atomica» e da parte dei russi che minacciano «attenti, potremmo usare l’atomica».

Se la detente non funziona più, se le diplomazie e le politiche internazionali sono divenute così incapaci di affrontare un conflitto (e le sue ragioni, per quanto pretestuose), è senz’altro dovuto all’evidente inettitudine dei leader del momento, o alla loro incapacità, ma si deve spiegare con un mutato atteggiamento sia degli americani che di russi e cinesi – le cosiddette super-potenze – nel mutato contesto internazionale.

L’atlantismo era nato come filosofia di fondo – appena finita la seconda guerra mondiale – per contrapporre il mondo capitalistico occidentale all’Unione Sovietica, uscita, nonostante i 40 milioni di morti, rafforzata, anche e soprattutto sul piano politico internazionale, più che su quello economico, con tutto quello che ciò comportava per l’affermarsi dei movimenti di liberazione e per i movimenti politici di ispirazione comunista nei paesi occidentali, che guidavano al tempo la protesta operaia, facendo sentire il fiato sul collo ai sistemi capitalistici occidentali che avevano bisogno di consolidarsi.

L’atlantismo fece da scudo, in Europa, al prevalere dei movimenti comunisti (e anche socialisti, in una prima fase). La crescita economica di quegli anni, di cui la Comunità Europea fu garante e stimolo, fecero il resto, vanificando nel tempo la prospettiva di una sollevazione popolare di ispirazione comunista e lo spettro di un rovesciamento delle istituzioni. Ma quell’atlantismo ebbe anche, come accompagnamento, il superamento del colonialismo, principalmente franco-inglese, a favore di un neo-colonialismo del mercato, che fece da supporto all’affermarsi del capitalismo in Europa e negli altri paesi capitalistici (grazie ai termini di scambio favorevoli tra materie prime e manufatti). Un neo-colonialismo che ha sempre mantenuto i tratti di un certo imperialismo (in America Latina e poi in Africa, a Cuba non gli andò bene).

Nella fase attuale, in cui la globalizzazione ha dato al capitalismo orizzonti diversi, tanto la reazione russa che quella americana si può dire che siano avvenute «guardando all’indietro», come se il mondo procedesse ancora a quel modo: a imperialismo si risponde con imperialismo. Ma qualcosa non ha funzionato, evidentemente e il ricorso verbale all’opzione nucleare pare evidenziare quanto mai come i protagonisti di questa vicenda stiano brancolando nel buio. Saggezza vorrebbe, quindi, che in tutte le sedi possibili, si tornasse a spolverare un poco di quella realpolitik che i nostri più acuti politici del secolo scorso avevano perseguito (Brandt, Palme, Keitsky, ma anche Gorbaciov e tanti altri nei ranghi appena inferiori). Consigliando ai leader le opzioni realistiche sul campo, cercando di ottenere sempre il massimo senza perderci la faccia.

Una sana realpolitik, oggi, metterebbe di fronte Putin e Zelensky, farebbe fare una piccola marcia indietro a Biden (che il suo obiettivo di rivitalizzare la Nato l’ha già ottenuto), permettendo a questa Europa miope e gretta di uscire dal pantano in cui si è messa. Perché dopo aver fatto affari coi russi per decenni, avendo stabilito questo mutuo rapporto di dipendenza – gas e petrolio in cambio di export e tecnologie – ora si trova con il cerino in mano delle sanzioni che le si stanno solo rivolgendo contro.

Reclamare la pace, come chiede De Magistris (nell’intervista al Sole 24 Ore, nella foto sotto), non è ingenuo o addirittura «cedere ai russi». Sarebbe un modo di agire nel segno di quella realpolitik che ha permesso di mantenere un certo equilibrio per decenni. Ma sarebbe anche un modo per questionare non solo il nuovo imperialismo russo ma anche il nuovo alito imperialista americano che ha oggi visto un’inattesa ripresa del comando del «fronte occidentale», ultimamente un po’ appannata. Certo, nel breve periodo continueremo ad aver bisogno della Nato, ma nel lungo dovremo lavorare per un nuovo equilibrio internazionale. E’ questo un cedimento? Il fatto è che dalla globalizzazione non si torna indietro (non lo vuole nemmeno il capitale, in fondo) e anche con questo dobbiamo fare i conti.

Anche perché c’è un’altra questione che incombe, anche se vogliamo far finta di niente. Ed è la questione ambientale, che richiederà comunque una stretta cooperazione internazionale.

Nell’immediato, però, che non si facciano pagare le dissennatezze e gli smarrimenti alla popolazione. L’aumento dei prezzi del gas è solo speculativo, per ora: si obblighino le compagnie a versare nelle casse dello Stato i profitti fatti (la differenza tra il prezzo da loro pagato alla fonte e il prezzo di vendita). E si smetta di pensare al gas come ad un’alternativa, perché non lo è, a nessuna condizione, pena il peggioramento della crisi climatica (da cui: NO ai gassificatori di un gas che ci verrebbe dagli USA ad un prezzo che stabilisce… il mercato).

La politica internazionale, la guerra e l’economia sono interconnesse: rimettiamoci a discuterne attorno a un tavolo, nelle stanze delle ambasciate, come avevano fatto i nostri padri (politici) che, forse memori del disastro che avevano vissuto, nonostante il furore ideologico, avevano ben presente quali prezzi potevano essere pagati e quali no.

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