Vive la liberté!

L’ineluttabile destino della sinistra, dimentica delle classi popolari


9 agosto 2022

Per quanto animato da sincero spirito, l’augurio di Gianni Cuperlo su questo giornale appare destinato a cadere nel vuoto. E non perché sia “irrealistico”, quanto perché non fa conto con l’evidenza di un percorso che appare ormai vicino al “capolinea”. Un percorso iniziato ben prima della nascita del Partito democratico che, fin dal nome, getta alle ortiche ogni possibile riferimento a quella che dovrebbe – ma qui forse c’è il primo equivoco – essere la sua natura di partito popolare e di sinistra. Perché cosa vuol dire “di sinistra” se non che guarda alle classi popolari?

Il Partito democratico di oggi ha perso ogni esplicito riferimento a quelle classi, parlando invece di eguaglianza dei diritti e delle opportunità. Non vi è più, come vi era nel partito da cui sostiene di trarre origine, alcun riferimento alla “trasformazione del sistema”. Non tanto come rivoluzione né come superamento del sistema democratico ma come azione decisa sul modo di produzione capitalistico oggi evolutosi nel contesto globale. Il cui sfruttamento indiscriminato e predatorio delle risorse è all’origine del cambiamento climatico, nonché dell’iniqua divisione internazionale del lavoro. Il Pd è un partito che ha a riferimento i ceti medi, non più le “classi lavoratrici” e in questo caso la terminologia è importante. Ed è “progressista” sul versante dei diritti ma non più su quello dei rapporti di lavoro e tra capitale e lavoro, avendo aderito da tempo alla logica neo-liberista che sono i mercati a trovare la soluzione più efficiente nell’allocazione delle risorse e quindi delle remunerazioni dei fattori.

Il capitalismo globale ha conosciuto negli ultimi trent’anni un’evoluzione che né a sinistra né a destra nessuno è stato in grado di prefigurare. In Italia e negli altri paesi a capitalismo avanzato è mutata la struttura di classe della società, così come è cambiata la struttura stessa dell’economia, con la perdita di peso della manifattura e l’ampliamento del terziario e dei servizi, il rapporto tra capitale e lavoro, le tipologie contrattuali. Tanto per i conservatori quanto per i riformisti la prospettiva politica si è concentrata sulle opzioni politiche offerte da una gestione del sistema sostanzialmente data. Così, la loro base sociale ha visto movimenti profondi.

Confusi da una lettura della società secondo la quale “le classi non esistono più” – favorita dal fatto che perde di peso la classe operaia industriale propriamente detta – e che vi siano ceti medi e medio-bassi da un lato e ceti alti e “produttivi” dall’altro, il riferimento dei progressisti non sono state più le antiche “classi lavoratrici”, come se queste fossero sparite. E queste, lentamente, hanno perso i loro riferimenti politici, abbandonate a se stesse e alle dinamiche del mercato.

Il Pd, come i suoi omologhi europei e americano, si è così affermato come il “partito dei diritti”, certo nel nome dell’eguaglianza, tra individui, però, non tra gruppi e fasce sociali, in questo sposando il fondamentale punto di vista individualista di impostazione liberale, condiviso dai conservatori. Così facendo, tuttavia, esso è venuto progressivamente perdendo quella base sociale che era stata del Pci e anche del Pds, cioè delle “sinistre”. Una lettura sbagliata della società, accanto a un disegno politico liberale e non più “social-democratico”, hanno fatto il resto.

Dopo la crisi economica del 2008-09, il Pd non coglie cosa sta avvenendo nel tessuto sociale. Il sostegno al governo Monti, dal 2011, con la sua agenda “rigorista” nel nome dell’austerity europea, provoca il primo definitivo smottamento, di cui trae vantaggio il messaggio egalitario e “populista” dei neonati 5 Stelle di Grillo. E il divario tra il paese e il palazzo si allarga, soprattutto tra i ceti popolari, come testimonia la partecipazione elettorale, che vede i votanti scendere dai 37,9 milioni del 2008 ai 33,9 del 2018.

Fino al 2008, il “blocco sociale di riferimento” del centro-sinistra è ancora definito, come lo è quello del centro-destra. Il Pd di Veltroni ottiene 12 milioni di voti, il 33,2% (il centro-sinistra tutto si ferma al 40,9%), ma il centro-destra ottiene il 46.8%, e l’UDC di Casini il 5.6%, cosicché il Signor B. torna al governo. Nel 2013, i voti del Pd di Bersani scendono a 8,6 milioni, il 25.4%, e la sua coalizione raggiunge il 29.6% con SEL al 3,2%, il centro-destra si ferma al 29.2%. Il M5S, invece, prende il 25.6%, raccogliendo buona parte del voto “in uscita” a sinistra. Per l’intera legislatura, il Pd mantiene la guida del governo, con Letta, Renzi e poi Gentiloni, non modificando sostanzialmente la sua agenda politica.

Così, nel 2018, i voti del Pd scendono ancora, a meno di 6,2 milioni, il 18,8%, al centro-sinistra va il 22,9% e Liberi e uguali ottiene il 3,4%. Il centro-destra ottiene il 37% (di cui la Lega il 17,4%). Ed è il M5S a uscire vincitore, raccogliendo ben 10,7 milioni di voti (il 32,7%) tra i ceti medi e medio-bassi delle periferie urbane e nel sud.

Se è vero che le posizioni pentastellate quanto quelle della Lega assumono caratteri “populisti”, è pur vero che esse rispondono a una domanda “egalitaria” e assistenzialista, le prime, quanto sicuritaria e identitaria, le seconde, in nome dell’anti-europeismo, dell’anti-elitismo, del protezionismo e del “sovranismo”, che trova i maggiori consensi tra le classi popolari, gli esclusi, i ceti medio-bassi, soprattutto in quelle fasce dove si alimenta il disagio sociale e il rancore. Il Pd – e la sinistra tutta – non viene più visto rappresentare gli interessi delle classi popolari, che si lasciano così attrarre tanto dal M5S che dalla Lega.

Quattro anni e mezzo sono passati senza che il Pd abbia non solo fatto un’analisi consequenziale di quanto andava corretto della sua linea e delle sue politiche ma stando al governo prima nel nome della “responsabilità”, per non “consegnare il paese a Salvini”, poi per affrontare l’emergenza della pandemia e sostenere il governo di “unità nazionale” sotto la guida di Mario Draghi. Dimenticandosi, ancora una volta, di quelle classi popolari che non sono più, evidentemente, nel suo radar. E che ora, dopo aver visto sciogliersi come neve al sole le promesse del M5S, come non poteva essere altrimenti, guarderanno a destra, nella speranza di trovare un nuovo rifugio, o resteranno semplicemente a casa, senza ormai alcuna fiducia che questa democrazia sia in grado di rispondere ai loro bisogni.

Per quanto Cuperlo auspichi che il Pd possa “battersi da sinistra”, ormai non pare più esserci nel suo DNA alcuna traccia di quanto servirebbe per dare risposte alle classi popolari, ridurre le disuguaglianze e la povertà, aumentare i redditi da lavoro e le pensioni, attuare politiche fiscali redistributive, eradicare lo sfruttamento sul lavoro, eliminare le tante tipologie di disagio sociale. Evolutosi nel partito progressista dei “diritti”, il Pd guarda ai ceti medi, che saranno pure la maggioranza, dimenticando però, anche in questo caso, quanto la loro condizione per grande parte sia andata “proletarizzandosi” negli ultimi anni.

Già negli anni Settanta più di un osservatore notò come, con i tassi disoccupazione che si verificarono in quegli anni, una rivoluzione sarebbe avvenuta anche solo cinquant’anni prima. Fu lo Stato sociale ad evitarla, invece di agire sui rapporti tra capitale e lavoro. Oggi, la rivolta non è all’orizzonte perché nessuno la fomenta. È la rivolta sociale che, tuttavia, può covare sotto la cenere, per dare la spinta a quella destra radicale che in nome della “vendetta” può dare una spallata definitiva alla democrazia liberale che si è dimostrata incapace di offrire quell’eguaglianza nella libertà che aveva promesso a due generazioni di italiani.

Inviato al Domani, non pubblicato