Vive la liberté!

Così il neo-conservatorismo italiano ha sposato il fascismo mai morto


3 agosto 2022

Sarà forse l’ironia della storia, ma potrebbe succedere che il prossimo 28 ottobre, centenario della marcia su Roma di Mussolini e dei suoi squadristi, al governo si trovino gli eredi diretti di quel movimento, quei «Fratelli d’Italia» post-fascisti, gli unici tra tutti i partiti oggi esistenti a mantenere nel proprio seno nostalgici ed epigoni di un’esperienza politica, ai loro occhi, mai chiusa definitivamente. Che Giorgia Meloni e commentatori vari gridino allo scandalo perché il New York Times sottolinei allarmato che vi sia in Italia la possibilità che i «post-fascisti» vadano al governo pare quanto meno risibile. Il partito Fratelli d’Italia, nonostante l’atlantismo dichiarato e l’accettazione piena delle regole democratiche, è a tutti gli effetti l’evoluzione di quell’esperienza che è stata Alleanza Nazionale, fondata nel 1995 da un Gianfranco Fini fattosi «moderato», lui che giovane segretario del Fronte della Gioventù nel 1977 agitava il manganello davanti alle scuole di Bologna con i suoi fascistelli. Quell’Alleanza non era stata, a sua volta, che l’evoluzione adeguata ai tempi di quel Movimento Sociale Italiano il cui segretario Giorgio Almirante era stato uomo della Repubblica Sociale di Salò, che non aveva mai rinnegato i suoi legami ideali con il fascismo, coltivandone in seno la continuità politica.

Il neo-fascismo in Italia, è noto, ha una storia contorta e complicata. Anche al di là delle sue derive terrostistiche e golpiste, è sempre rimasto incistito nella destra repubblicana, prima raccogliendo nostalgici e reduci, inglobando ignominiosamente anche i monarchici, per poi rappresentare quella fascia retriva di borghesia, da un lato, e di proletariato disperato, fomentandone le derive rivoltose (vedasi i «boia chi molla»), senza disdegnare le frange violente e nazisteggianti (da Avanguardia nazionale a Forza nuova).

Certo, nell’evoluzione post-ideologica che ha caratterizzato il passaggio dal Novecento al XXI secolo, la destra italiana è mutata, senza però mai dismettere completamente i panni di un movimento capace di addensare i grumi di quel sentimento anti-democratico, anti-liberale e visceralmente autoritario che facilmente si annida nelle pieghe del disagio sociale delle periferie, dei «sottoproletari», degli esclusi, incolti e perduti, degli scontenti. Che oggi, con il conservatorismo alla deriva, ritrova seguito, mettendo insieme quello statalismo delle fasce più retrive della piccola borghesia con il «richiamo della foresta» del proletariato alla ricerca di protezione, purchessia, lasciato alla deriva dalla globalizzazione neo-liberista e dall’evanescenza della sinistra.

Non si tratta tanto di quell’«eterno fascismo» di cui alcuni hanno parlato. Il fascismo in Italia non è eterno: semplicemente non è mai morto. Perché il nostro è un paese che non ha mai fatto i conti con il suo passato. Dopo l’esperienza traumatica di un movimento che andò al potere con la violenza e l’intimidazione – complice la monarchia e una classe politica che in parte non vide altro modo di arginare la rivolta sociale provocata dalla guerra e da un’élite economica che pur di non cedere di fronte alle richieste delle classi lavoratrici preferì la scolta autoritaria – i vent’anni successivi videro l’affermarsi di una dittatura in cui il piccolo capitalismo italiano trovò protezione e il paese, pur rimanendo fondamentalmente rurale, andò lentamente mutando verso l’economia industriale.

Quella dittatura, però, dannata che era non poté fare a meno di precipitare nel baratro di una farneticante ambizione coloniale, alleandosi poi al montante alleato tedesco i cui caratteri mostruosi – l’arianesimo, l’antisemitismo, il militarismo – solo la cecità dei leader europei poteva non vedere. Ma il fascismo, in Italia, grazie al consenso – ben ricompensato – dell’élite economica e della piccola borghesia ora affrancata dal «terrore comunista», fu certo capace di mantenersi in sella per un ventennio. E quando il rinato sentimento nazionale e popolare poté ritrovare speranza nella lotta partigiana e nell’alleanza con gli Anglo-Americani contro i tedeschi – per chiudere la tragedia di una guerra che il paese non aveva voluto e per aprire una nuova fase democratica – la transizione fu vissuta dalle grandi masse con partecipazione. In quella fase, però, non si fu capaci di «chiudere» con il passato regime, perché troppi vi avevano trovato una collocazione accettabile e troppi vi erano rimasti compromessi. La resistenza, nel dopoguerra, al di là delle dichiarazioni di facciata, finì per divenire patrimonio delle sole sinistre, che in essa avevano visto la possibilità di un cambiamento «vero», mentre tanta parte della borghesia piccola e grande non aveva voluto che liberarsi di un regime divenuto «ingombrante» senza per questo rinnegarne molti dei «modi di funzionamento» che ne avevano permesso la sopravvivenza. Il nuovo alleato americano fece il resto, promettendo protezione e prosperità in cambio dell’adesione a un’altra alleanza che, contrapponendosi all’Unione Sovietica senza la quale la guerra al nazismo non sarebbe stata vinta, aveva in realtà lo scopo di garantire che il pericolo comunista e socialista – già materializzatosi nel 1919-20 – non avesse a ripresentarsi, rovesciando i rapporti di forza tra un proletariato sempre sottomesso e una borghesia economica fiorente nello sfruttamento di quello.

Il miracolo economico fece il resto. L’aumento del reddito e il miglioramento delle condizioni di vita, prima per una minoranza e poi per una via via crescente maggioranza della popolazione si fecero carico di vanificare l’opzione rivoluzionaria, portando così prima al coinvolgimento delle forze socialiste e poi anche di quelle comuniste nella gestione del governo, pur sempre in mano al partito conservatore. In questo senso, però, la storia d’Italia, è solo in parte la storia del successo della democrazia. Perché se a sinistra l’adesione alla prospettiva democratica divenne indiscussa – grazie all’estensione del benessere alle grandi masse ma anche all’allargamento dei diritti – a destra questa rimase solida finché il conservatorismo seppe coniugare prosperità e controllo del potere, relegando nell’angolo il rigurgito neo-fascista autoritario (anche se i suoi tentacoli rimasero vivi, come testimonia la «strategia della tensione»).

Con il crollo dell’Unione Sovietica, le sinistre persero forse un riferimento, ma non esitarono a dichiarare la loro ferma adesione al capitalismo democratico, allo stato liberale fortificato dal welfare, confidando che quanto era stato possibile per quarant’anni avrebbe continuato ad esserlo grazie al presidio democratico e al consenso delle masse popolari. Ma il capitalismo, che pure aveva dovuto cedere su molti fronti per poter mantenere il controllo «politico» del processo – come mostrò plasticamente l’andamento della distribuzione del reddito a favore del lavoro – ebbe modo di trovare linfa nella nuova fase neo-liberista che si aprì con l’avvio della globalizzazione. Le sinistre non capirono cosa stesse succedendo: le classi popolari non sarebbero state «protette» come il credo della «crescita per tutti» predicava. Le destre, invece, ne colsero tutte le premesse. L’ordine neo-liberista si occupò di rimettere le cose a posto: il lavoro tornò ad essere sotto-remunerato, il capitale a prosperare. E le sinistre, obnubilate, gradualmente persero il consenso di quelle masse popolari – ora ri-proletarizzate – focalizzandosi sui nuovi ceti medi. Che, però, con il passare degli anni, hanno perso anch’essi garanzie, prospettive e reddito. Ritrovando nel conservatorismo, in parte, un nuovo riferimento.

Il conservatorismo liberale moderno, in Italia come in molte democrazie, ha perso anch’esso il polso. Di fronte all’evidenza che il capitalismo globalizzato non può che favorire élite ristrette, emarginando non solo le classi popolari ma anche parte dei ceti medi proletarizzati, ha «capito» che coltivando una prospettiva nazionalista («sovranista») e accarezzando quella autoritaria, può farsi, spregiudicatamente, paladina degli esclusi (mettendo i poveri gli uni contro gli altri) in nome della prosperità perduta. Le classi popolari non guardano più a sinistra? A destra trovano il conforto di una promessa di protezione, mentre a sinistra si parla di «diritti». Così, torna a galla il vecchio sentimento su cui il fascismo aveva saputo vivere: difendersi dai più poveretti, dai più esclusi, «tenerli al loro posto». I conservatori non si turano più il naso: ben vengano i red-necks degli hinterlands, i coatti delle periferie, i «perdenti della globalizzazione» se questi ci faranno restare al potere. Così da poter rimettere a posto le cose per i prossimi cinquant’anni: trumpisti e orbanisti di tutto il mondo uniti contro questa pallida socialdemocrazia egalitarista, che solo così riusciremo a tenere a bada questo «terzo mondo» (ora «secondo») e mantenere saldo l’ordine internazionale dell’atlantismo capitalistico, eredità del colonialismo imperialista che oggi rivive nel capitalismo neoliberista globalizzato. E chi si prenderà cura, in Italia, di dare spazio a questa prospettiva: i post-fascisti, chi altro se no? Con buona pace delle sinistre, oggi a difesa dei ceti medi, senza più le perdute classi popolari.

Uscito su Domani, 4 agosto 2022